Antonio Rezza, visto da una nostra allieva

Cosa significa dentro? E cosa significa fuori? Cos’è la parola? Cosa significa comunicare?

All’inizio dello spettacolo in scena appare una specie di bara dalla quale Rezza, con movimenti sussultori mormora dei borbottii incomprensibili. Poi l’attore prende vita, e con lui la parola e il movimento precisi, una specie di resurrezione o nascita al mondo. E il mondo, la scena, è costituito solo da una porta con il suo stipite che lui trascina come Cristo la sua croce, aprendola e chiudendola in continuazione e delimitando così un dentro e un fuori, uno spazio interno e uno spazio esterno. La porta non è simbolo ma mezzo per interagire col mondo. Sbattendola o aprendola l’attore si fa Dio, decide chi sta dentro e chi sta fuori. Gli altri attori si muovono occupando lo spazio ed entrando e uscendo da quella porta senza pronunciare una sola parola. La parola, il verbo, è solo suo, a parlare è lui e solo lui in un monologo di quasi due ore ironico, acuto, dissacratorio. La scena è essenziale, fatta di movimento. Rezza ci mostra solo i movimenti del suo corpo e la porta attraversata dai corpi. Corpi che perdono identità nel non-riconoscimento da parte degli altri, continuando a muoversi sul palcoscenico secondo imperscrutabili logiche interne. Solo la porta è testimone dell’esistenza dell’attore parlante, l’unico che per mezzo della parola esiste. Solo la porta sembra riconoscerlo emettendo un suono al suo passaggio. Così come fa il pubblico in sala, solo il pubblico infatti con il suono degli applausi legittima l’attore. Ed è così che tutto perde senso, l’unica forma di comunicazione tra gli attori diventa il presentarsi e stringersi le mani in modo convulso, guidati come marionette dalla voce di Rezza che come un burattinaio li presenta meccanicamente gli uni agli altri, perfino l’esserci viene messo in dubbio da un ipotetico non esserci, perfino la voce dimentica se stessa e si fa atavica bestemmia ululata al cielo con un fischietto, perfino la porta perde il suo significato e diventa un fucile per abbattere gli attori in scena, atto estremo di sfida verso tutti gli dei. Per gli antichi greci Hybris è l’orgogliosa tracotanza che porta l’uomo a confidare nella propria potenza e a ribellarsi contro l’ordine costituito, sia divino che umano. La prosa dissacratoria e a tratti interlocutoria di Rezza, fa si che lo spettatore si senta coinvolto in un ritmo incalzante di riflessioni sul sé, sulla presunzione e l’aggressività, sull’incomunicabilità, sulla solitudine, ed è quasi incitamento alla ribellione, a varcare i limiti, a ritrovare una propria umanità e dignità che diano un senso al vivere. Usciamo da questo spettacolo un po' storditi e contagiati dall’inesauribile energia di Rezza, dal suo impeto, dalla sua carica vitale, dalla sua follia irriverente ma anche un pochino più introspettivi, un pochino meno superficiali, con qualche domanda che ci è rimasta appiccicata all’anima. E allora è uno spettacolo che merita di essere visto.

Daniela Zanelli, allieva di Mamì, corso di teatro Avanzato a progetto